Come per la Bosnia, anche per l’Ucraina l’apporto delle ONG, del volontariato, del mondo cattolico e delle comunità locali è stato determinante per evitare il collasso dell’Ucraina. Lo ha scritto Andrea Nicastro per l’inserto settimanale del Corriere della Sera “Buone Notizie”, articolo che pubblichiamo per gentile concessione della testata
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Se quella sera Zelensky non avesse rifiutato il “taxi verso l’esilio”, se i servizi segreti non avessero individuato gli Antonov carichi di forze speciali, se l’Occidente, se Putin, se… allora l’Ucraina avrebbe perso.
C’è un “se” di solito ignorato nell’analisi di questo primo anno d guerra che è stato altrettanto determinate: se nei primi giorni di invasione non fosse scattato “il riflesso Bosnia” tra le comunità di immigrati e le organizzazioni non governative di tutta Europa, a quest’ora staremmo parlando di un’Ucraina sotto influenza russa.
Per la guerra di Bosnia successe lo stesso: centinaia di parroci, attivisti, volontari d’ogni inspirazione cominciarono a fare la spola tra casa loro, in pace, e il Paese sotto attacco. Agirono d’istinto, mossi dalla pietà per quello che vedevano alla televisione, spinti dall’idea che l’indifferenza verso la sofferenza degli altri è inaccettabile. Caricarono coperte, omogenizzati, antibiotici, saponi, tende e partirono senza coordinamento, senza autorizzazione, senza un piano preciso su dove sarebbero andati e come avrebbero inciso sulla guerra.
Bosnia 1992, Ucraina 2022: i rubinetti del volontariato si sono riaperti. La portinaia Halyna, il camionista Ivan, la badante Dorina mobilitano i quartieri delle città italiane dove vivono. È la diaspora a riempiere di aiuti i primi pulmini. Nel weekend viaggiano 20 ore andata e ritorno e consegnano pacchi di pasta al confine tra Polonia e Ucraina. Il lunedì sono al lavoro.
Con il loro esempio, attivisti per i diritti umani, preti, femministe, quel popolo d’Italia che non riesce a stare alla finestra, parte anche senza l’ombrello delle organizzazioni non governative. Hanno i riflessi più pronti solo le ong che già lavorano in Ucraina: Comunità di Sant’Egidio, AiBi, Fondazione Soleterre, Medici senza Frontiere. Riescono ad evacuare centinaia di persone, trovare un tetto per i profughi. Nel giro di dieci giorni si muovono anche gli altri. Senza le ONG – in Italia Caritas, Intersos, Progetto Arca e tanti altri stranieri – l’Ucraina sarebbe collassata. Solo dopo le prime settimane di caos assoluto, quasi due mesi, il governo di Kiev dimostra di essere vivo e comincia a manovrare le sue strutture.
Lo stesso per gli Stati solidali. Passano più di due settimane prima che le armi occidentali affluiscano in Ucraina. Sarebbero state decisive per fermare il primo tentativo putiniano di catturare il “Paese fratello“. Ma prima e per lunghi mesi dopo, in misura minore ancora oggi, il ruolo delle ong è stato determinante a sostenere lo spirito del Paese.
Forse dentro le mura del Cremlino, nell’isolamento dato dal potere assoluto, dalla infinita distanza che c’è tra lo zar e la gente comune, chi ha pianificato l’invasione non aveva messo in conto l’azione di chi, anche senza armi, non riesce a stare a guardare.