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Il welfare in Calabria rischia l’implosione

Forse il 2023 è l’anno buono per vedere attuata anche in Calabria, dopo oltre vent’anni, la riforma del welfare. Ma la mancanza di risorse adeguate, la “ricorsite” di taluni e strutture regionali che non si parlano e non collaborano tra loro fanno temere il peggio

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Comunque andrà, il 2023 sarà un anno decisivo per il welfare calabrese.

In primo luogo perché entro quest’anno dovrebbe vedere finalmente la conclusione l’iter attuativo della L.328/00 anche in Calabria, una riforma attesa oltre vent’anni e che già porta con sé l’odore stantio di qualcosa di superato.

Ciò nonostante, dopo ritardi e rinvii vari ( da ultimo quello stabilito in extremis il 14 dicembre scorso dalla Giunta Regionale con la DGR 669, che ha prorogato al prossimo 30 settembre il termine per l’adeguamento delle quasi 500 strutture socio-assistenziali calabresi), ora è lecito attendersi un deciso passo in avanti nel cammino regolamentare di riforma.

Un passo che però già sembra inciampare sulla prima grande novità: il nuovo criterio di distribuzione delle risorse tra i diversi Ambiti comunali.

Come noto, infatti, in Calabria sono operativi 32 ambiti socio assistenziali tra i quali vengono distribuiti i soldi derivanti dal fondo regionale e dal fondo nazionale politiche sociali.

Si tratta in totale di circa 30 milioni di euro, per una media pari a meno di 16 euro pro capite ad abitante.

La novità però non sta nell’evidente, ed ormai storica, insufficienza dei fondi, ma nella nuova modalità di distribuzione delle risorse tra gli Ambiti che progressivamente porterà nel 2024 a risolvere l’annoso squilibrio tra territori, distribuendo le risorse in ragione dei residenti e non più dei posti letto e delle strutture esistenti nell’Ambito.

Si conferma quindi l’intenzione di passare da un sistema fondato esclusivamente su strutture socio-assistenziali, ad un modello di programmazione che dovrebbe prevedere l’effettiva realizzazione di politiche sociali integrate, territoriali e di prossimità.

Non ci sono riforme a costo zero

Eppure, nonostante le intenzioni siano assolutamente condivisibili, permangono enormi dubbi (e purtroppo alcune certezze) sulla concreta tenuta di un sistema così concepito.

La madre di tutte le questioni è sempre la stessa: per garantire un modello innovativo, di presa in carico territoriale delle fragilità, capace di mettere al centro la persona e volto a garantire dignità e la massima autonomia possibile, è necessario investire risorse economiche adeguate.

Lo abbiamo detto più volte, lo ribadiamo ancora: non si possono costruire riforme a costo zero!

Se già in un sistema senza garanzia di servizi e qualità, i 30 milioni sul piatto erano insufficienti a garantire la sopravvivenza dei pochi servizi esistenti, come potranno bastare quando finalmente gli enti gestori dovranno adeguarsi a requisiti professionali e strutturali (entro settembre prossimo!), senza che vi sia la copertura economica di tali spese, peraltro in un momento di forte crisi e congiuntura sfavorevole legata alle note difficoltà energetiche.

Un’insufficienza di risorse certificata dallo stesso Dipartimento Politiche Sociali della Regione Calabria che negli ultimi tempi ha più volte chiesto un’integrazione del fondo regionale pari ad almeno ulteriori 5 milioni per i servizi socio-assistenziali.

La sequela di ricorsi e contro-ricorsi a chi giova?

Timori che hanno condotto già una decina di soggetti gestori di strutture socio-assistenziali, nella migliore tradizione calabra, a ricorre al Tribunale Amministrativo Regionale per sospendere e quindi annullare la DGR 669/22 e tutti gli atti conseguenti e preordinati. L’ennesimo ricorso che pone ancora una volta l’intero percorso di riforma sotto la spada di Damocle di un possibile annullamento, e quindi, come nel gioco dell’oca, di un ritorno al punto di partenza.

Ovviamente ci sarebbe da chiedersi a chi giova continuare a proporre ricorsi e contro-ricorsi al TAR, rendendo ancora più lento e faticoso un percorso che altro non dovrebbe essere, in una regione normale, che l’attuazione di una norma nazionale rimasta colpevolmente inattuata per oltre un ventennio.

Forse potrà convenire a chi, tutto sommato, ha convenienza a lasciare le cose inalterate, con servizi di scarsa qualità e senza controlli particolari.

Di certo non giova alle persone fragili di questa regione che vedono ancora inesigibili diritti sociali fondamentali di assistenza, educativi, tutela, accoglienza, che in altri territori sono garantiti da decenni.

Né alla lunga, ad avviso di chi scrive, conviene agli Ambiti comunali ed agli enti gestori dei servizi, perché, oltre a perpetrare uno stato di incertezza e precarietà, non conduce mai a risultati migliorativi (vedere come riprova l’annullamento della DGR 449/2016, primo regolamento attuativo cassato dal TAR con una sentenza salutata dai pochi ricorrenti come la salvezza delle strutture e dei comuni, cui è seguita la DGR 503/2019 che ha definito un sistema, forse corretto sotto il profilo procedurale e giuridico, ma assolutamente peggiorativo rispetto al precedente).

Al di là del metodo, comunque non condivisibile, di procedere con continui ricorsi all’autorità giudiziaria, è comunque assolutamente vero che le risorse attualmente disponibili ed il calcolo delle tariffe/costi dei servizi sono totalmente insufficienti.

La fragilità degli Ambiti territoriali

Ma ci sono anche altri rischi, altrettanto seri, che corre il percorso di riforma, primo tra tutti il permanere di una forte fragilità degli Ambiti comunali e la totale assenza di meccanismi di integrazione socio-sanitaria.

Ed evidentemente si tratta di fattori strettamente connessi tra loro.

Paradossalmente, mai come in questo periodo sono presenti nei comuni risorse economiche rilevanti per le politiche sociali.

Se è vero, come detto sopra, che il fondo regionale ed il fondo nazionale per le politiche sociali sono insufficienti a coprire i costi della riforma, ed in particolare dei servizi socio-assistenziali già operativi, è altrettanto vero che nelle casse degli Ambiti territoriali sono presenti ingenti risorse economiche derivanti da diversi fondi specifici.

A mero titolo di esempio non esaustivo: il fondo non autosufficienze, rispetto al quale alcuni comuni ancora devono spendere l’annualità 2015, il fondo previsto dalla legge 112 sul dopo di noi (parliamo di 6 annualità già disponibili!), il fondo povertà che in questi giorni viene suddiviso tra gli Ambiti, e poi i vari fondi Pon, PAC, PISL, per non parlare dell’ormai famigerato PNRR.

Tutte risorse disponibili, che potenzialmente potrebbero cambiare il volto alle politiche sociali calabresi, ma che sono tutte legate ad un onere imprescindibile: una programmazione puntuale ed integrata.

Ed è qui che si inceppa il percorso.

Nonostante una enorme varietà di risorse e di possibili azioni da mettere in campo, gli Ambiti, sommersi da una mole infinita di adempimenti e di scadenze, si trovano il più delle volte a mettere in piedi progetti raffazzonati e scollegati tra loro, più per timore di perdere i finanziamenti che in ragione di un’adeguata visione di politica sociale generale.

I Piani di Zona, che dovrebbero rappresentare il filo rosso di tutta la programmazione, costruiti anch’essi in fretta e furia nel 2020 senza una reale valutazione dei bisogni, di fatto rappresentano documenti statici senza alcun collegamento con le ulteriori programmazioni specifiche dei vari fondi.

Il risultato, nella stragrande maggioranza dei casi, è una programmazione disomogenea, senza un disegno unitario di welfare, costruita per adempimenti più che per obiettivi di cambiamento.

Il nodo della mancata integrazione socio-sanitaria

Emblematica di questa programmazione a “compartimenti stagni” è la totale carenza di integrazione socio-sanitaria.

Sui territori le Aziende Sanitarie e gli Uffici di Piano camminano su rette parallele senza alcuna occasione anche solo di incontro, figuriamoci di integrazione.

Peraltro ciò che accade a livello locale rappresenta lo specchio della situazione a livello regionale, dove sanità e sociale di fatto si ignorano a vicenda. Basta considerare che nella costruzione del Piano Sociale Regionale, peraltro ora in fase di rinnovo, nulla è pervenuto dal Dipartimento Salute, nonostante sollecitato, così come sui documenti di programmazione sanitaria, primo tra tutti la “Rete Territoriale”, il Dipartimento Politiche Sociali non è stato in alcun modo coinvolto.

Di positivo, sul punto, è la notizia dell’istituzione di un tavolo regionale sull’integrazione socio-sanitaria rispetto al quale abbiamo grandi aspettative considerando finalmente la presenza di tutti i dipartimenti e degli altri attori sociali, ivi compresi Aziende Sanitarie, Ambiti Sociali ed il Terzo Settore.

Una partita delicata anche per il Terzo settore

Ma al di là di questa buona notizia, è comunque serio il rischio di implosione del sistema, rischio che la DGR 669 ha solo posticipato di qualche mese.

E le conseguenze potrebbero essere molto gravi per migliaia di calabresi, anziani, minori, persone con disabilità, che potrebbero essere privati di servizi fondamentali.

Una partita molto delicata aspetta quindi la nuova Assessora Emma Staine, ed in generale l’intero apparato regionale, ma anche gli Ambiti e lo stesso Terzo settore calabrese.

Si dovrà infatti mettere mano al Regolamento modificandolo per renderlo sostenibile, a partire dalla definizione di tariffe adeguate ai requisiti organizzativi richiesti e non tarate semplicemente sulle risorse disponibili.

E sarà soprattutto necessaria una battaglia politica e sociale che restituisca dignità al settore, imponendo al bilancio regionale investimenti seri sulle politiche sociali, per garantire tenuta e continuità ad una riforma che non può più attendere.

Poi dovrà infine essere affrontata, una volta per tutte, la questione della programmazione, uscendo da logiche spartitorie ed emergenziali, per entrare in una dimensione moderna ed integrata che ponga i cittadini e la comunità territoriale realmente al centro degli interventi sociali.

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L’autore è Portavoce del Terzo settore Calabria

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