Sessualità ed affettività a scuola: basta il consenso della famiglia?

Il Parlamento sta discutendo la proposta di Legge Valditara riguardante l’educazione sessuale ed affettiva nelle scuole. Si parla di consenso informato delle famiglie, ma il rischio è che tutto si riduca ad una firma di autorizzazione senza un reale coinvolgimento della comunità educante

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Ultimamente sono ritornati di grande attualità alcuni temi che riguardano il mondo della scuola, tra cui la riforma dell’esame di Stato, diventata legge. Particolare interesse suscita anche la tematica dell’educazione sessuale nelle scuola, contenuta nel Disegno di legge (DDL) Valditara denominato Disposizioni in materia di consenso informato in ambito scolastico, un provvedimento ancora all’esame del Parlamento e che a prima vista sembra innocuo —parla infatti di «rafforzare la corresponsabilità educativa tra scuola e famiglia» — ma che nelle sue pieghe introduce vincoli all’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, consentita solo alle superiori e previo consenso scritto delle famiglie.
Fa piacere che, di tanto in tanto, il dibattito pubblico si concentri sull’educazione e sui giovani. Peccato che l’attenzione su tali ambiti duri quanto un battito di ciglia: una settimana di discussioni in tv, sui giornali, sui social — poi puff, tutto svanisce. Non è più una società “liquida”, quella che viviamo, ma “gassosa”: dove tutto evapora prima ancora di sedimentare.

Paletti fragili

Nel DDL Valditara, si parla di coinvolgimento delle famiglie, ma solo quando si toccano certi temi. Va benissimo la consultazione, ma se vogliamo davvero parlare di comunità educante, perché non coinvolgere l’intera comunità? Educare non è reprimere: è costruire insieme, in rete, con la scuola, le famiglie e i territori.
Il testo si concentra soprattutto sulla scuola secondaria di primo grado. Eppure, parliamoci chiaro: possiamo anche mettere dei paletti dentro la scuola, ma cosa accade fuori? I nostri ragazzi e ragazze, una volta a casa, vivono nel mondo “onlife”: social, giochi online come Roblox, influencer. Lì trovano informazioni e modelli che spesso sono distorti, superficiali, a volte pericolosi.

Una società senza filtri

Qualche giorno fa ho visto un video della content creator Maria Elise Sabbione: spiegava come i preadolescenti non abbiano più spazi narrativi pensati per la loro età. Negli anni 2000, i programmi Disney o serie come Hannah Montana offrivano mondi sicuri, con protagonisti giovani e linguaggi adatti. Persino i vestiti della protagonista erano scelti per contrastare l’ipersessualizzazione dominante. Oggi quegli spazi non esistono più: tv e piattaforme preferiscono target adulti, e i ragazzi saltano una fase, passando direttamente a modelli e linguaggi da grandi. Il risultato? Un’accelerazione dell’età percepita, un vuoto di figure di riferimento, un mondo dove sessualità, status ed estetica diventano padroni. Se la scuola viene limitata, ma il resto della società corre senza filtri, chi si prende cura della crescita integrale di bambine e bambini, ragazze e ragazzi?
E allora la domanda è: vogliamo davvero “proteggere” i giovani negando loro strumenti di conoscenza, o vogliamo finalmente assumerci — come comunità — la responsabilità di educarli, insieme?

Un patto educativo vero

E dunque sì, coinvolgere le famiglie, ma in un patto educativo vero, che non si limiti a un consenso firmato. Un patto che le renda parte del percorso: incontri di confronto con docenti e specialisti, spazi di formazione condivisi su come parlare di corpo, emozioni e rispetto reciproco, occasioni per riflettere su come accompagnare figli e figlie nella scoperta di sé e dell’altro — e prepararli anche alla consapevolezza del mondo digitale, che troppo spesso banalizziamo come una realtà a parte, quando invece è ormai pienamente inglobato nelle vite delle nuove generazioni. Onlife (citando Luciano Floridi), appunto.
Solo così scuola e famiglia possono parlarsi davvero. Perché, in tutto questo, non sono i ragazzi a essere impreparati — spesso, siamo noi adulti a esserlo.

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* Con riferimento all’art.19 del Codice deontologico dei Giornalisti, l’autrice dichiara che per la redazione dell’articolo non si è avvalsa del contributo dell’Intelligenza Artificiale

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