Piazze piene di giovani, urne vuote: qualcosa non quadra

Le recenti elezioni regionali in Calabria hanno confermato la scarsa partecipazione al voto, eppure qualche segnale di speranza si intravede nel nuovo protagonismo dei giovani

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Delle elezioni regionali appena concluse si è detto e scritto molto. Un aspetto che non è stato molto approfondito è quello relativo al rapporto giovani/elezioni.

In attesa di analisi puntuali sul grado di partecipazione dei giovani al momento elettorale, qualche riflessione merita farla.

Partiamo dal dato che, ancora una volta, definire allarmante è poco.
L’affluenza alle urne in Calabria si è fermata al 43,14%. Tradotto: poco più di un calabrese su due non è andato a votare. I politici ed i partiti che hanno vinto fanno finta di niente e sorvolano sull’argomento, quelli che hanno perso lo utilizzano per parlare d’altro e non fare fino in fondo i conti con gli evidenti limiti della loro proposta politica.

Pur mettendo nel conto che il dato dell’affluenza è condizionato dai tanti che per motivi di studio o di lavoro si trovano per lunghi periodi fuori dalla Calabria ( a quando una legge che consenta di votare a distanza?), quarantatré è un numero che parla da sé, e che segnala – ancora una volta – una crescente disaffezione dei cittadini, in particolare dei giovani, nei confronti delle istituzioni politiche.

La crisi della rappresentanza

La crisi della rappresentanza non è solo una questione di numeri: è una crisi di fiducia, di partecipazione e di identità politica.
I giovani calabresi sono tra i più colpiti da questa distanza. Se si chiede loro cosa pensino dei partiti, la risposta è spesso diretta: “non mi rappresentano”, “non credo ai partiti”, “sono tutti uguali”.
Molti non si riconoscono più nelle forme tradizionali della politica, che percepiscono come lontane, opache, autoreferenziali.
Eppure, lo vediamo ogni giorno: le piazze sono piene, ma le urne restano vuote.

Non si può però dire che manchi la consapevolezza. Anzi, le nuove generazioni esprimono un impegno reale e profondo: lo vediamo nei laboratori di idee, nelle esperienze come Reggio 2031, nel volontariato, nel terzo settore, in chi si mette in gioco per la comunità.
Sono tutte forme di partecipazione autentica, ma che raramente vengono riconosciute come “politiche”. Eppure lo sono, eccome.

Foto Davide Crea

Tra delega e disaffezione alla politica

La polarizzazione e la sfiducia hanno prodotto una paura diffusa: quella di “fare politica”, quasi fosse una cosa sporca, dimenticando che politica significa semplicemente “prendersi cura della città”, della comunità, del bene comune.

Fino a pochi decenni fa – lo ricordano bene “i più grandi” – la politica era una vera palestra di cittadinanza: circoli, sezioni di partito, movimenti studenteschi e associazioni erano luoghi in cui si imparava a discutere, mediare, costruire insieme soluzioni condivise.
Oggi, come disse don Italo Calabrò agli studenti del liceo Vinci, prevale una delega costante a chi ci rappresenta, senza sentirsi parte di un processo collettivo. Ed è proprio qui che si consuma una delle fratture più profonde: viaggiamo a due velocità differenti

Da un lato c’è la politica che decide, spesso chiusa in sé stessa, con i suoi tempi e linguaggi; dall’altro, i cittadini che delegano, rassegnati e disillusi, perché non credono più che la loro voce possa davvero incidere.

Tra questi due binari corre la distanza che svuota la democrazia di significato e riduce la partecipazione a un gesto episodico. La militanza è stata sostituita da una semplice appartenenza, spesso più legata al favore o alla convenienza che alla competenza o all’ideale.

Il risveglio dei giovani riscriverà la politica?

La politica ha smesso di formare cittadini, e i cittadini hanno smesso di pretendere politica.
Nel vuoto che si è creato, il dissenso si sfoga sui social o in proteste occasionali, ma raramente si traduce in partecipazione strutturata, duratura, trasformativa.

E tuttavia, il recente risveglio della partecipazione di tanti giovani nelle piazze d’Italia può costituire un punto di svolta per restituire dignità alla politica come pratica quotidiana. Ciò sarà possibile se i giovani acquisiranno la consapevolezza che fare politica non vuol dire iscriversi al partito X o Y: bensì leggere il potere, riconoscere i diritti, esercitare la responsabilità civica, farsi portatori di istanze e proposte.

Essere politici e non partitici significa comprendere che la democrazia non si esaurisce nel voto, ma vive in una cura costante delle relazioni, delle decisioni collettive e, soprattutto, della comunità.

Forse proprio dai giovani – da chi riempie oggi le piazze e sogna un domani diverso – può arrivare la spinta più forte a riscrivere la politica come spazio di libertà, competenza e coraggio. Ed allora sì che le urne potranno tornare a riempirsi.

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* Con riferimento all’art.19 del Codice deontologico dei Giornalisti, l’autrice dichiara che per la redazione dell’articolo non si è avvalsa del contributo dell’Intelligenza Artificiale

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