Matteo Lancini: lo psicologo a scuola serve ai ragazzi, ma anche a docenti e genitori

Dopo l’articolo di Giulia Melissari sul progetto regionale dello Psicologo nella scuola, continuiamo gli approfondimenti sul disagio giovanile e sul ruolo dello psicologo a scuola intervistando uno dei maggiori esperti italiani, il prof. Matteo Lancini, presidente della fondazione Minotauro di Milano, psicologo e psicoterapeuta

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E’ vero che c’è un modo diverso di crescere e adattarsi alla società odierna, ma l’adolescenza è sempre la stessa: dopo la preadolescenza, che coincide con quelle che erano le scuole medie, c’è l’adolescenza, che finisce con l’esame di maturità; poi inizia una nuova fase che è quella del giovane adulto, una fase che noi psicologi abbiamo rubato alla sociologia, per dire che oggi esiste un ulteriore passaggio complicato prima di diventare adulti.

Ferme restando le differenze individuali, è indubbio che questa è una società che non guarda con attenzione ai ragazzi, e quindi negli ultimi anni sicuramente c’è stato un aumento di un disagio molto conclamato, che è legato a espressioni violente verso di sé e verso gli altri, ma più generale direi che il disagio degli adolescenti è una rappresentazione del disagio di una società che se ne frega quotidianamente del futuro dei propri giovani. E questo mi sembra evidente dal trattamento che si riserva al pianeta e alla vita umana, visti le guerre e i morti che ci sono, compresi i bambini; e, per quanto riguarda il quotidiano, per il tipo di scuola e di vita che organizziamo rispetto alle esigenze attuali e future di questa fascia della popolazione.”

Penso che per alcune cose incidano le diverse situazioni territoriali, regionali e locali. Ma il vero problema è che c’è una fragilità degli adulti, che mettono al centro i propri bisogni e le proprie esigenze e non quelle delle nuove generazioni. Quindi non credo che il problema sia di averli ascoltati troppo, aver dato troppo, ma, al contrario, penso che non siano mai esistiti nella storia, almeno negli ultimi anni, adulti che pensano solo a se stessi come siamo noi, e che raccontano che stanno dando troppo ai giovani.
Il problema è che in passato questo tipo di individualismo e di attenzione non marcata all’ascolto dei figli e degli studenti si verificava all’interno di una società, quella dei nostri padri e dei nostri nonni, dove questo era chiaro, la distanza era abissale. Invece oggi il problema principale è che le nuove generazioni crescono sulla base di un patto non scritto proposto loro dai genitori e dagli insegnanti : io come genitore ti ho voluto, io ti ascolterò, ognuno può realizzare sé stesso nella famiglia, nella scuola, nella società. Nella realtà questo patto viene interrotto nel momento esatto in cui un figlio o uno studente prova a esprimere delle emozioni che ci disturbano enormemente, che sono la tristezza, la paura e la rabbia.

Quindi il tema di fondo a mio avviso è questo: non c’è identificazione con i bisogni reali delle nuove generazioni; è il contrario di avergli dato troppo, pensiamo solo a noi, e infatti non so perché mettiamo al mondo i figli, che è la domanda che tutti si dovrebbero porre.

Sarebbe ora che tutta l’Italia si dotasse finalmente di una strutturazione dello psicologo a scuola, non perché voglio tirare acqua al mio mulino, ma perché è indubbio che negli ultimi anni la scuola è stata invasa da un processo di affetto, di relazioni e quindi anche di disagio. La modalità migliore è che gli psicologi intervengano prevedendo diverso tempo anche a sostegno degli adulti. Oggi se non si lavora sulla fragilità di genitori e insegnanti è come avere una barca che ha una  falla di tre metri quadri da cui imbarca acqua e svuotarla col cucchiaino disinteressandosi della falla. Quindi lo psicologo a scuola va finalmente introdotto come figura stabile del singolo istituto, è giusto che intervenga sia individualmente che nelle classi, ma la vera questione è se ha diverse ore da dedicare agli adulti. 
Siccome ho aperto sportelli d’ascolto oltre 30 anni fa, posso dirle che l’errore più grande sarebbe pensare di aprire uno sportello d’ascolto immaginando che il bisogno sia solo quello dei ragazzi. C’è una fragilità adulta sulla quale se non si interviene c’è poco da fare. Detto in altre parole, se stai in una scuola e sostieni psicologicamente un ragazzo che intanto ha dei genitori fuori di testa, nel senso che non lo aiutano, è una scuola che finirà col bocciarlo e lo psicologo serve a poco.

Devono iniziare a smetterla di dire che è colpa di Internet se stanno male i ragazzi. Oggi i ragazzi vanno in Internet a ridurre la solitudine che sperimentano con gli adulti. Devono iniziare ad organizzare un sistema scolastico che sia più rivolto ai ragazzi e non agli adulti. Devono preoccuparsi di educare al digitale, oltre a smetterla di sostenere che il malessere dei ragazzi o la violenza giovanile dipenderebbero dai social network, dai videogiochi o dai rapper, mentre intorno, tutti i giorni, gli adulti li costringono a vivere in un mondo dove manca il rispetto degli altri e il valore della vita è via via meno importante, come ci dimostrano le sempre più frequenti guerre.

Prima del dialogo con l’adolescente bisogna porsi questa domanda. Sto parlando per me o per te? Sto facendo un intervento per me o per te? Se stai facendo un intervento educativo, genitoriale, da docente o da psicologo per te stesso è meglio che vai a fare altro. Se lo fai per l’adolescente, la domanda è: Chi sei tu? e poi stare zitti a legittimare le emozioni dell’altro. 
Noi continuiamo a chiamare educazione e regolamentazione normativa il mettere a tacere tutte le emozioni che ci disturbano, che non ci piacciono e non abbiamo neanche tempo per ascoltarli autenticamente, perché siamo al centro noi. Quindi questo è quello che bisogna fare. 
In più fare le domande giuste. La sera , a tavola, invece di chiedergli di spegnere il cellulare, chiedere ai figli se pensano al suicidio, se si vedono brutti davanti allo specchio e fagli la domanda che tutti dovrebbero fare, visto che oggi li abbiamo costretti a costruire l’identità in internet: Come vai nel mondo internet? 
Insomma ,come ho scritto nel mio ultimo libro “Chiamami adulto”, bisogna saper stare nelle relazioni. Stare, non fare, solo che stare implica tempo, cambiare programmi, non pensare solo a se stessi e non so se siamo pronti.

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