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Centro Comunitario Agape

La sfida di educare oggi al Sud

Il mese prossimo avrà luogo in città una iniziativa seminariale, in collaborazione con la Fondazione Zancan, centrata sul tema dell’educare oggi. Sarà un’occasione anche per riflettere sulla dignità ed il valore del lavoro educativo professionale

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Ne parliamo con Pasquale Neri, portavoce provinciale del Forum del Terzo Settore.

E’ davvero attuale, oggi, riaprire una riflessione su ruolo e finalità del lavoro educativo?

Penso proprio di sì. La sensazione è che oggi l’azione educativa abbia smarrito il senso stesso del proprio essere azione trasformatrice, ridotta a procedure, tecniche e strumenti di lavoro.

Dove sta il problema? E il ragionamento vale per tutti gli ambiti?

Chi opera in ambito educativo, indipendentemente dal settore di impiego (pubblico o privato) e dalla tipologia di servizio o attività (residenziale, diurno, socioassistenziale, sociosanitario, sanitario, ecc.) rischia di avere di sé, del proprio lavoro e della propria carriera professionale, una percezione “finita”, cioè orientata agli obiettivi del servizio/attività.

E con i ritmi di vita dettati dai turni e dalle sostituzioni, ecc., la professione, nata per promuovere opportunità, sviluppo e trasformazione, si vede inscritta dentro confini formali, adempimenti e procedure spesso funzionali al mantenimento di un sistema che tende ad autoriprodursi ed a perpetuare diseguaglianze.

Ma non c’è oggi un problema che riguarda la stessa identità dell’educatore professionale?

Un’università definisce così l’educatore professionale: L’EDUCATORE PROFESSIONALE organizza e gestisce progetti e servizi educativi e riabilitativi all’interno dei servizi sanitari o all’interno di servizi socio-educativi, destinati a persone in difficoltà: minori, tossicodipendenti, alcolisti, carcerati, disabili, pazienti psichiatrici e anziani. Lavora in équipe multidisciplinari, stimola i gruppi e le singole persone a perseguire l’obiettivo di reinserimento sociale definendo interventi educativi, assistenziali e sanitari rispondenti ai bisogni individuali attraverso lo sviluppo dell’autonomia, delle potenzialità individuali e dei rapporti sociali con l’ambiente esterno…

E quindi?

Mi chiedo se è questo l’orizzonte di chi sceglie la strada dell’educazione per un sé che cambia dentro un contesto che, in ragione della propria azione trasformatrice, cambia a sua volta. Banalmente, il reinserimento sociale, frutto del lavoro multidisciplinare in cui anche l’educatore recita una parte, ha a che fare con il percorso di presa di coscienza di sé e dei propri diritti o con norme e regole che definiscono il funzionamento del contesto sociale ed economico – che è spesso causa delle fragilità che vivono le persone con cui siamo chiamati a lavorare – a cui noi per primi siamo chiamati ad adeguarci?

Facciamo qualche esempio pratico che aiuti meglio a capire

Per tornare alla definizione di quell’università, quale esperienza trasformatrice sottende il Piano Educativo Individualizzato (PEI) di quei servizi sanitari, sociali o educativi rivolti a minori, tossicodipendenti, alcolisti, carcerati, disabili, pazienti psichiatrici e anziani? Cosa prevederà un intervento in una RSA dentro la quale ci sono persone anziane che avrebbero il diritto di vivere con i propri cari gli ultimi anni di vita? O quello di un’adolescente che frequenta un centro di aggregazione e “gode” di supporto e accompagnamento scolastico al fine di poter risultare più idoneo alle regole di funzionamento di una scuola sempre più distante dalle sue condizioni di fragilità, e sempre più attenta alle prove invalsi, alle metriche di valutazione e ai percorsi di alternanza scuola/lavoro?

Oggi è moderno e al passo con i tempi chi sostiene che l’istruzione (e il merito) debba essere subordinata alle richieste del mercato del lavoro. Ma, come scrive Touraine, “… non si può parlare di istruzione quando l’individuo viene ridotto alle funzioni sociali che deve assolvere”.

Siamo sicuri di riuscire a “metterci nei panni dell’altro” quando agiamo il nostro essere educatori ed educatrici? Le fatiche, le scommesse, i dissensi, gli interrogativi, le lotte, i successi sulla base di quali elementi andrebbero misurati, valutati?

Ma la debolezza della figura dell’educatrice/educatore all’interno delle cosiddette “comunità educanti” attiene al disconoscimento sociale ed economico della funzione?

Non sono certo che il problema principale degli educatori e delle educatrici, oggi, sia il riconoscimento economico e sociale di un lavoro che, invece, tutti o quasi, “uomini e donne di buona volontà” credono di poter “fare”. Così come ho perplessità sul fatto che il lavoro nei e con i territori abbia dato una mano a quei processi di presa di coscienza, di autodeterminazione, di empowerment da parte dei “diversi soggetti”, istituzionali e non, sui percorsi di crescita e sviluppo di singoli e comunità. La sensazione, magari sbagliata, è che la “comunità educante” sia diventata uno spazio nel quale chiunque si sente legittimato, in quanto parte del villaggio, a fare la propria parte per minori e famiglie in difficoltà. Con il particolare che educatori ed educatrici contano sempre meno e, invece, il resto delle professioni (non importa se sociali o meno, anzi soprattutto non sociali) diventano sempre più protagoniste e centrali. Perché in fondo per “fare buona educazione” basta disporre di tempo, passione e buone intenzioni. E quel lavoro per il passaggio da bestie a uomini a cui accennava don Milani lo diamo per scontato? Non serve più? Lo farà qualcun altro? È passato di moda? Non credo che l’azione educativa possa essere esercitata da tutti a prescindere da qualunque cornice di riferimento dentro cui si dovrebbe agire l’intenzionalità educativa attraverso conoscenze, competenze e metodo.

Insomma, per te l’educatore non può prescindere dalla piena consapevolezza dell’impatto del suo lavoro nel contesto storico-sociale in cui opera. E’ così?

Da educatore penso che oggi il rischio che corriamo sia quello di giocare il ruolo del criceto. Mettere al centro della discussione la gabbia e la sua qualità e bellezza, con una ruota più funzionale (magari dorata), che gira più velocemente a parità di sforzo. Per dirla con Dussel, per quanto lo “schiavo” lavori, giammai diverrà “signore libero”; al contrario, arricchirà il “signore” e sarà più schiavizzato.

Per fare un riferimento concreto: oggi, in un contesto nel quale il mio Paese rischia di trovarsi portato indietro di alcuni secoli attraverso provvedimenti extraparlamentari che minano dalle fondamenta l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, essere educatore o educatrice, in cosa si concretizza? Nella residenza che darà visibilità al percorso formativo, nella possibilità di poter lavorare in questo o quel territorio, nel peso della busta paga, nella quantità di servizi di cui si potrà godere (o pagare) in funzione della regione di nascita e del reddito?

L’autonomia differenziata, di fatto, si realizzerà attraverso un sotterraneo spezzettamento del Paese ma anche, cosa più grave, sancirà la formale e sostanziale differenza (e non diversità) tra cittadini e cittadine di diversi territori. La negazione di quel patto fatto di valori, principi di solidarietà, diritti e doveri fondamentali che caratterizzano i pilastri della nostra Costituzione nel complesso percorso di formazione dell’idea di popolo italiano.

Per concludere, quale dovrebbe essere il ruolo di chi si occupa di educazione?

Diversi anni addietro Danilo Dolci (una figura storica non solo per chi, come me, si occupa di educazione da Sud) definì la costruzione della diga sullo Jato, realizzata negli anni ’60, soprattutto a seguito delle iniziative intraprese con buona parte degli abitanti dei paesini che erano da decenni senza acqua, la sua più grande realizzazione pedagogicain Sicilia. Non ne considerava il suo valore economico ma l’alto valore educativo, perché a seguito della costruzione della diga mutarono in quelle aree i modelli di produzione, le forme di pensiero delle persone, le modalità di organizzazione sociale.

Ecco, l’educazione è una categoria interpretativa della realtà direttamente legata all’idea di partecipazione e democrazia: credo sia il primo punto su cui tornare a lavorare in termini di consapevolezza e responsabilità. Tante domande alle quali, però, servono risposte da costruire insieme, a partire dal quadro di valori rappresentato dalla Costituzione. Occorre uscire dalla dimensione individualistica e abbracciare quella comunitaria, riaprire la porta al concetto di “educazione problematizzante” di Freire.

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