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Centro Comunitario Agape

Autonomia differenziata: non è solo questione di LEP

Dopo la presentazione della proposta di legge sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, i fautori dell’Autonomia differenziata sono tornati alla carica, spingendo per una rapida approvazione di un provvedimento che è destinato ad allargare la forbice delle disuguaglianze territoriali

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Nei giorni scorsi, il presidente della Regione Saverio Occhiuto, lasciando da parte l’ambiguità che finora aveva caratterizzato le sue posizioni sull’Autonomia differenziata, ha preso una chiara e decisa posizione, sostenendo che prima dell’Autonomia occorre definire e finanziare i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) onde evitare che il divario tra le regioni del Sud e quelle del Nord si allarghi ulteriormente, specialmente nel settore cruciale della sanità ( che, come è noto, rappresenta oltre l’80% delle spese correnti regionali).

Essendo Occhiuto un esponente di primo piano di Forza Italia (di cui è stato uno dei capigruppo parlamentari prima di diventare presidente della Calabria), è auspicabile che la sua presa di posizione porti il suo partito a schierarsi senza titubanze sulla difesa dei LEP.

E tuttavia, come evidenziamo nel titolo di questo articolo, ammesso e non concesso che si arrivi alla definizione e al finanziamento dei LEP, il progetto di Autonomia differenziata rimarrà comunque un pericoloso attentato all’equità sociale e territoriale del nostro Paese.

A tale proposito, abbiamo recuperato sull’argomento il punto di vista di tre figure che certamente non possono essere accusate – per la loro storia personale e professionale – di posizioni preconcette nei confronti del governo in carica, e cioè: Mons. Francesco Savino, Vescovo di Cassano e vicepresidente della CEI per l’Italia meridionale; l’economista Carlo Cottarelli e Nino Cartabellotta, uno dei massimi esperti di politiche sanitarie, presidente della Fondazione Gimbe.

Nino Cartabellotta con il presidente Mattarella

L’autonomia differenziata aumenta le disuguaglianze regionali

Secondo lo studio della Fondazione Gimbe, nel decennio tra il 2010 e il 2019 solo tre regioni hanno superato l’86% di soddisfacimento dei Livelli essenziali di assistenza (LEA). Guarda caso le tre che hanno già chiesto maggiore autonomia: Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.  Tra quelle che si posizionano o superano il 76,6% non si trova nessuna regione del Sud e solo due del Centro (Umbria e Marche). Infine, tutte le regioni del Centro-Sud (eccetto la Basilicata) rimangono da 12-16 anni in piano di rientro e Calabria e Molise sono ancora commissariate.

Per Cartabellotta, “Questi dati confermano che nonostante la definizione dei Lea dal 2001, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali, in particolare un gap strutturale Nord-Sud che compromette l’equità di accesso ai servizi e alimenta un’imponente mobilità sanitaria in direzione Sud-Nord.

Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione, non potrà che amplificare le inaccettabili diseguaglianze esistenti”.

I Lep, strumento che, almeno sulla carta (visto come è andato per i Lea) dovrebbero servire a dare una garanzia di diritti uguali per tutti ovunque si viva, non sono stati definiti e tanto meno finanziati. Ma per renderli sul serio strumento efficace dovrebbero esser finanziati in maniera superiore proprio dove non ci sono o sono più deboli. La logica del progetto Calderoli, invece, va esattamente nella direzione opposta.

Per tale ragione, sostiene ancora Cartabellotta: “Il regionalismo differenziato in sanità finirà per legittimare normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute. Tutto ciò proprio in un momento storico in cui il Paese ha sottoscritto con l’Europa il Pnrr, il cui obiettivo trasversale è proprio quello di ridurre le diseguaglianze regionali e territoriali”.

Carlo Cottarelli

Autonomia senza solidarietà

Come si sa, il diavolo si nasconde nei dettagli. Nel caso del progetto di Autonomia differenziata, il “dettaglio satanico” sta in quattro parole quattro (“maturato nel territorio regionale”), come spiega con disarmante chiarezza Carlo Cottarelli in un articolo pubblicato prima dell’estate su Repubblica, che di seguito sintetizziamo.

Il rapporto tra Regioni a Statuto Ordinario (Rso) e Stato è da sempre basato su un principio fondamentale: al contrario di quelle a statuto speciale, le Rso trasferiscono allo Stato gran parte delle imposte generate sul proprio territorio e lo Stato le spende sulla base di politiche uguali su tutto il territorio nazionale. Questo consente una redistribuzione di risorse dalle Regioni più ricche a quelle meno ricche.

L’omogeneità nelle politiche di spesa ha una principale eccezione: la sanità. Il modo con cui le risorse sanitarie sono spese è deciso dalle varie Regioni, sotto il vincolo di garantire livelli essenziali di assistenza (cioè prestazioni minime che, almeno in teoria, tutte le Regioni devono garantire). Ma anche per la sanità prevale il principio di solidarietà perché le risorse per finanziare la spesa gestita regionalmente vengono comunque da Roma, dal finanziamento al Servizio sanitario regionale distribuito tra Regioni in base al numero di abitanti e all’anzianità di questi, non in base a quanto i cittadini delle varie Regioni abbiano contribuito al pagamento delle imposte. Quindi si decentra la gestione della spesa, ma non il suo finanziamento.

La legge Calderoli, in poche chiarissime parole, viola il principio di solidarietà. L’articolo 5, comma 2, dice infatti che il finanziamento delle funzioni che verranno attribuite alle Regioni avverrà “attraverso la compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale”.

Ecco fatto: “maturato nel territorio regionale”. Una Regione che chiede l’autonomia trattiene parte del proprio gettito in Regione, non lo manda più a Roma. Si decentra non solo la gestione della spesa (come nel caso della sanità), ma anche la fonte di reddito.

Naturalmente, visto che inizialmente le risorse attribuite alle Regioni sono pari al costo delle competenze trasferite, la Regione non ottiene più risorse di quante ne aveva prima. Ma da lì in poi se una Regione cresce più delle altre trattiene una parte delle maggiori entrate. E visto che gli accordi di autonomia differenziata hanno lunga durata (dieci anni rinnovabili), col tempo le differenze di finanziamento rispetto al sistema attuale potranno diventare rilevanti.

Ora, questo sistema potrà piacere o non piacere. I sostenitori noteranno, per esempio, che trattenere in Regione il frutto della maggiore crescita incentiva una sana concorrenza tra le Regioni a crescere di più. Ma fatto sta che, seppure in termini incrementali, la legge Calderoli viola il principio di solidarietà che ha prevalso da sempre. È un problema grosso come una casa per un governo guidato da Fratelli d’Italia, che sarebbero un po’ meno fratelli dopo l’approvazione della legge.

Si poteva gestire l’autonomia differenziata in modo diverso? Sì, replicando il modello della sanità per cui le risorse restavano al centro e venivano trasferite alle Regioni per una gestione decentrata. Senza violare il principio di solidarietà, si sarebbe almeno soddisfatta una delle motivazioni per l’autonomia, ossia il fatto che alcune Regioni pensano di poter gestire meglio le risorse a livello locale, adattandole ai bisogni dei cittadini.

Mons.Francesco Savino

Un’Italia spaccata dalla disparità sociale

In una accorata lettera agli uomini impegnati nelle istituzioni politiche della sua Diocesi, mons. Savino, vicepresidente della CEI, ha definito l’Autonomia differenziata come la “secessione dei ricchi, perché tradisce la giustizia sociale e l’equità, perché di fatto recinta i sogni, le aspettative e le contaminazioni sociali, culturali, economiche ed umane per cui qualcuno prima di noi ha dato la vita, ha lasciato terra ed affetti, ha sacrificato l’appartenenza per il riscatto.

Stiamo mettendo a rischio la nostra economia, il nostro lavoro, l’istruzione, la tutela della nostra salute. Stiamo mettendo a rischio la sacralità della Costituzione e, determinando una più ampia forbice di disuguaglianza, la stessa sacralità del Vangelo. Non si può lasciare che incomba un abisso tra i modelli d’eccellenza e modelli che arrancano a garantire livelli essenziali di prestazione. Non esistono città, paesi e regioni di serie A e di serie B; crederlo rischia di ridurre tutto al caos del tifo, della disorganizzazione”.

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