Una casa autogestita offre a donne in situazioni di emergenza o vittime di violenza un rifugio temporaneo per ricominciare a riprogettare la propria vita
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Far finta di niente, o addirittura girarsi dall’altra parte davanti a violenze, aggressioni e altri soprusi, è diventato ormai così normale che combattere per i propri diritti viene considerato ribellione. La violenza di genere è presumibilmente una delle forme di violenza più antiche, con la differenza che nei tempi moderni ha imparato a camuffarsi e a nascondersi dietro escamotage socioculturali.
Si camuffa così tanto bene che non di rado le vittime, invece di vedersi tendere una mano, divengono bersaglio di victim blaming (colpevolizzazione della vittima). La donna, da sempre percepita come più “debole”, più “fragile”, è bersagliata con stereotipi di genere, il cui mantra principale è: Se l’è cercata!
Tante volte mi sono trovata a ragionare su queste cose da quando sono entrata in contatto con alcune donne vittime di violenza conosciute a Casa Reghellin, dove ho iniziato come tirocinante del Corso per Assistenti Sociali ed ho poi proseguito come volontaria del Servizio Civile dell’Agape.
A pensarci bene, dev’essere stato un disegno superiore (o, se si preferisce, il destino) a farmi incontrare questa esperienza; infatti, di solito, quando l’Università ti manda in un ente a fare tirocinio, è l’Ente che ti destina ad uno o più servizi: nel mio caso, invece, l’Università mi ha mandato all’Agape con già stampato sul modulo il nome di Casa Reghellin!
Ma procediamo con ordine. Il 27 Ottobre 2015 in un appartamento nella zona Nord della città viene inaugurata Casa Reghellin, così denominata in onore di Padre Guido Reghellin, un gesuita che è stato padre spirituale di alcune delle volontarie che hanno dato vita all’Associazione Zedakà, che la gestisce (Zedakà in ebraico significa giustizia di Dio, carità come giustizia)
La casa come rifugio
L’associazione ha come presidente Nella Restuccia. Facendo volontariato al Centro di Ascolto Diocesano della Caritas di Reggio Calabria, Nella e le sue amiche si sono trovate di fronte innumerevoli situazioni di disagio economico e sociale di donne in stato di abbandono, e così hanno deciso che dovevano fare qualcosa di concreto: dare loro un rifugio.
I primi casi sono state donne straniere, ex badanti, che con la morte dei loro assistiti si sono ritrovate senza nessuna dimora, senza un posto al caldo e sicuro dove poter stare. Donne senza tante pretese, tutto poteva andar bene pur di non dormire al freddo alla Stazione Centrale o essere in balìa della strada.
Con il passare del tempo, la Casa ha cominciato ad essere conosciuta, e non solo dalla rete sociale e del volontariato, ma anche da Questura e Prefettura, che hanno cominciato a fare riferimento ad essa per situazioni di emergenza, ivi comprese donne vittime di violenza con o senza minori a carico.
Le ospiti sono accolte per un massimo di sei mesi e affiancate per poter scegliere un progetto di vita migliore, che combaci con le loro necessità e bisogni. La particolarità di Casa Reghellin è anche l’autogestione da parte delle ospiti, che contribuisce a renderla una vera e propria “casa” non solamente in termini di spazi e arredi, ma per ciò che il termine casa racchiude: un luogo sicuro dove potersi rifugiare, circondate da persone che condividono situazioni di vita, che non hanno colpe se non quello di appartenere al cosiddetto “sesso debole”, ed essere state protagoniste di una serie di sfortunati eventi, spesso intrappolate da mostri mascherati da uomini ammirevoli e amorevoli.
Andare oltre le apparenze e riscoprire la forza di essere donne
Avevo letto qualcosa su Casa Reghellin e l’essere mamma forse mi ha incuriosita e dato uno stimolo in più a conoscere queste donne così fragili, ma al tempo stesso tanto forti. Così, come ho già accennato, il tirocinio si è poi trasformato in Servizio Civile, ma il mio relazionarmi a loro vuole andare oltre, perché aiutare gli altri in maniera non egoistica ti fa sentire e stare bene, e anche quando sei scoraggiata o stai passando una brutta giornata ti rendi conto che in questo mondo le cose importanti sono ben altre e che si può essere comunque utili agli altri.
Questa esperienza mi sta insegnando tanto.
È sempre difficile entrare nel dolore di qualcun altro, più difficile ancora è che quel qualcuno ti lasci entrare nel suo dolore. Ho imparato che le diversità, per quanto oggi si parli di globalizzazione e di integrazione, esistono, altroché se esistono.
Essere madri, per esempio, e essere madri straniere, così come essere madri sole, e essere madri sole straniere, sono concetti sui quali nessuno si sofferma, ma c’è un enorme differenza per come si viene percepiti e di conseguenza trattati.
Ho imparato che a volte sono le persone di cui ti fidavi di più a girarti le spalle e che spesso fanno parte della tua famiglia. Ho imparato che certi legami, anche se malsani, sono difficili da chiudere, soprattutto se quella mano violenta era la stessa mano che ti accarezzava e se quella bocca che inizialmente con le sue parole ti aveva messa su un piedistallo, ora ti faceva precipitare.
Ma ho imparato anche che bisogna andare oltre le apparenze, che non è tutto come sembra. Ho imparato che spesso dietro a quel muro così ben costruito, si nasconde semplicemente una donna che non vuole più essere ferita.
Ho imparato ad essere più forte e che per ottenere ciò che si vuole bisogna lottare con tutte le proprie forze. Ho imparato che spesso quello che si ha basta e avanza.
Ho imparato che è l’amore in sé che ci fa andare avanti, sia l’amore incondizionato di una madre verso il figlio o l’amore verso sé stessi.
Ed infine, cosa più importante, ho imparato ad apprezzare di più l’essere donna.
Donna che ha la forza di rialzarsi sempre, anche quando le condizioni per poterlo fare sono sfavorevoli. Con la tenacia di volersi mettere alla pari con questa società e far sentire la propria voce, spesso anche rimettendoci. Pronta a dare una mano finché ci sarà qualcuno che lotta, perché ne varrà sempre la pena.
E, in fondo, per me è questo il senso che Casa Reghellin racchiude e vuole condividere.
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