Lunedì 6 maggio a Limbadi si rinnoverà il “pellegrinaggio” religioso e laico davanti al cancello dell’azienda agricola dove nel 2016 fu sequestrata ed uccisa Maria Chindamo, mamma, imprenditrice, donna libera che ha pagato con la vita la ribellione ad un contesto ambientale e mafioso che da sempre considera l’indipendenza della donna una minaccia al potere patriarcale e delinquenziale che la ‘ndrangheta rappresenta
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In tanti ci ritroveremo lunedì, ancora una volta, otto anni dopo, davanti a quel cancello (n.b.: trovate un’ottima sintesi della storia di Maria Chindamo cliccando qui), un luogo che ha visto e ci racconta tre cose fondamentali.
L’orrore
La prima cosa è l’orrore di quel vero e proprio atto di barbarie, di una vita innocente che si è voluta spegnere con l’uccisione e con l’accanimento della distruzione del suo corpo, dandolo in pasto ai maiali. Un atto ripugnante, di persone malvage che può essere commentato solo con le parole che don Italo Calabrò utilizzò esattamente quaranta anni fa, nel 1984, a Lazzaro, nella sua omelia in occasione del sequestro del piccolo Vincenzo Diano: “I mafiosi si definiscono uomini d’onore, ma che onore hanno persone che arrivano a colpire anche i bambini? Dobbiamo dirlo forte, i mafiosi non sono uomini, i mafiosi non hanno onore e non possiamo definirli delle bestie perché offenderemmo le bestie…ma anche per loro c’è una speranza se scelgono veramente di convertirsi e di cambiare vita”.
Il dolore
La seconda cosa è il dolore della madre, dei figli, del fratello. Un carico di sofferenza gettato sulle spalle di chi si è visto strappare dalla propria vita una donna che ha scelto semplicemente di essere libera, di poter coltivare i suoi sogni. I familiari di Maria potevano vivere in modo privato questa sofferenza, rinchiudersi nella intimità del proprio dolore, ma proprio per non rendere vana la scelta di libertà di Maria hanno voluto che la sua storia diventasse memoria collettiva, accomunandola alle vicende di tante altre donne calabresi che come Lei non hanno accettato un destino di rassegnazione, di limitazione del diritto ad autodeterminarsi.
Hanno da subito chiesto verità e giustizia, pungolando magistratura e forze dell’ordine a non archiviare, a continuare le indagini, a fare appelli – a chi sapeva – di parlare rompendo il muro dell’omertà. Grazie anche a questa determinazione, proprio negli ultimi mesi questo buio ha iniziato ad essere illuminato e gli sviluppi dell’inchiesta sulla sua morte e dell’appena avviato processo confermano e stanno facendo emergere quello che si sospettava da subito: Maria è stata vittima di un femminicidio di stampo mafioso, frutto di una mentalità diffusa che nega il diritto alle donne di scegliere il proprio destino. Per questo è doveroso il ringraziamento alla magistratura ed alle forze dell’ordine che non hanno mai smesso di continuare a scavare per fare emergere la verità.
La speranza
La terza è la speranza: quel cancello, infine, ha visto ed è testimone della speranza di una Calabria che vuole cambiare. L’ha vista nei volti di tanti che ogni anno il sei di maggio si danno appuntamento davanti alla sua azienda agricola per ricordare Maria. L’ha vista nell’impegno di molte associazioni, cooperative, scuole, istituzioni che con grande fatica producono legalità e solidarietà, educazione, lavoro, cultura. L’ha vista nei volti degli studenti che nelle scuole e nell’università calabresi hanno iniziato a studiare la storia di Maria e delle altre vittime innocenti di mafia, che sentono il bisogno di testimoniare con la loro presenza a Limbadi vicinanza alla famiglia e impegno a raccogliere il testimone del suo messaggio di vita, per fare vincere il bene sul male, per diventare artigiani di pace e cittadini responsabili.
Quel cancello, il sei maggio, in piena primavera, si apre a tutti affinché varcandolo vedano le terre di Maria che continuano a dare frutti e ci spinge a coltivare i suoi sogni, per fare risplendere i colori delle tante speranze di cambiamento che stanno germogliando nella nostra Calabria e nell’intero Paese.