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Centro Comunitario Agape

Il linguaggio di Don Italo

Il 16 giugno del 1990 moriva Don Italo Calabrò, una figura carismatica che ha lasciato una traccia indelebile nella chiesa e nella società reggina e nazionale

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Ad oltre trent’anni dalla morte di Don Italo e sulla scia di tante testimonianze che si rinnovano su questa luminosa esperienza cristiana, penso sia interessante riflettere su una circostanza che spesso passa in secondo piano, quella del suo “linguaggio”.

Di un sacerdote così impegnato, a livello non solo diocesano, ma nazionale (penso al lavoro con Caritas Italiana), abbiamo in effetti pochi scritti, alcuni interventi pubblici o in gruppi (talvolta preziosamente registrati e conservati), un paio di interviste.

Un linguaggio complessivamente poco carismatico e non travolgente, se restiamo alla prima lettura dei testi, che riflettono l’attenzione essenziale alla riflessione sulla realtà ed alla comunicazione di esperienze, un contatto volutamente schietto con chi ascolta, semplicità e forza evangelica. Uno stile simile a quello al quale ci ha abituati in questi anni Papa Francesco.

Questa comunicazione dimostratasi così feconda per chi lo ha conosciuto, difficile da descrivere e rappresentare, viene da chiedersi, è ancora attuale ? Può vivere oltre la vita della persona ?

Don Italo parla ancora oggi, certo,  a tanti ragazzi, in modo riflesso, dentro e fuori la sua Agape, nella testimonianza di chi ha fatto nel solco da lui tracciato coraggiose scelte di vita, di coloro che hanno moltiplicato nel suo stile opere e servizi di liberazione “con” gli esclusi della terra. Ma gli ostacoli perché abbia ancora presa un linguaggio del genere sono oggi sempre maggiori.

Il mondo di Don Italo era un mondo senza smartphone, iphone, senza facebook, instagram, twitter, tik-tok, dove centrali erano gli incontri da persona a persona. Il telefono serviva a fissare un appuntamento o avvertire di un ritardo, per strada poteva ancora servire un gettone. C’erano ancora in politica i comizi, c’era la Democrazia cristiana ed il Partito comunista. In treno o in autobus si chiacchierava animatamente, non si stava chini e silenziosi sul cellulare.

La parola non ha però solo cambiato i suoi luoghi. Esempi concreti e sempre più inquietanti ci avvertono quanto il senso del dialogo e della comunicazione sia oggi smarrito.

Pochi come Don Italo hanno sottolineato, ad esempio, l’importanza di avvicinarsi con passione alla politica come strumento di comunicazione di idee e cambiamento, strada per l’emancipazione e l’inclusione dei poveri. Quella stagione sembra tramontata. Lo vediamo oggi emblematicamente nel Parlamento, palcoscenico per esibire rancori personali e collettivi, lo vediamo nei dibattiti televisivi fatti per irridere l’avversario e distribuire etichette. Resiste, è vero, nel sentire della gente, la figura forte e serena del Presidente Mattarella, non a caso anche lui uomo dal parlare sobrio, per nulla travolgente, con parole che però pesano, semplici e meditate, eppure quasi un sopravvissuto di un mondo ormai lontano e tutti si chiedono: che sarà dopo ?

Il problema è più ampio, pesa nel privato e nel pubblico un modo di comunicare scomposto e distruttivo, sembra che tutti siamo creditori di qualcosa e nessuno è debitore. E maciniamo una informazione ad effetto che non ammette pause, alternando allegramente la finale di Champions e gli orrori della guerra in Ucraina, i dettagli morbosi dell’ultimo femminicidio e le storie commoventi dei cuccioli abbandonati e ritrovati. Siamo anche la società che ha generato per i ragazzi che si affacciano alla vita la figura (che resta per me incomprensibile) dell’influencer, ignoto pifferaio il cui magico potere sta in una finzione senza tempo di fascino e successo da inseguire acquistando prodotti e servizi, dove niente accade per caso e tutto è misurato in click, visualizzazioni, consumi.

Non che il linguaggio debba essere cauto e la parola sempre sussurrata. Anche Don Italo la sua voce la alzava, eccome, quando serviva.

Pensiamo al tema della ‘ndrangheta: al tempo di Don Italo il solo parlarne era imprudente o imbarazzante, i toni “dovevano” essere vaghi, misurati, generici. Don Italo capì con memorabili interventi che occorreva rompere questo schema, che ne andava della credibilità della Chiesa. Rischiando di persona nel suo ruolo di parroco, come nei funerali di alcuni mafiosi, parlando della violenza omicida senza peli sulla lingua, in modo che ancor oggi ci appare sferzante, senza limitarsi a benedire una bara e consolare i presenti.

Poi però ricordando, a chi lo tirava nella nascente etichetta di prete “antimafia”, che la Chiesa non cerca passerelle e non festeggia le condanne, vuole cambiare le coscienze.

Che la Chiesa è la presenza del giorno dopo, quando i riflettori si spengono.

Il linguaggio di Don Italo ha così paradossalmente, forse, per quanto il pessimismo sembri prevalere, ancora molte cose da dire.

Abbiamo più che mai bisogno di una parola “parlata”, fatta di comunicazione da persona a persona. Soprattutto per i giovani dobbiamo porci seriamente il problema di questo ipercomunicare alienato ed inutile, di tanti ragazzi sospesi nel vuoto tra noia e deliri di onnipotenza. Fare “uscire” i ragazzi dai cellulari, senza l’illusione di dominarli, è per certi aspetti la vera sfida del futuro.

Abbiamo ancora (e sempre più) bisogno di una parola “disarmata”, ovvero capace di affermare valori senza erigere barriere, pronta a cogliere la complessità dei problemi e le resistenze altrui, tenace nel far muovere alla comunità tutta piccoli passi avanti. Penso al lungo e paziente lavoro di sensibilizzazione sulla realtà del manicomio a Reggio Calabria negli anni 70 e 80, con le prime esperienze a Cucullaro, una pagina importante del lavoro di Don Italo e una palestra di vita per tanti.

Abbiamo infine bisogno di una parola che, come quella di Don Italo, sappia essere ancora, in contesti nuovi e difficili, in modi diversi ed originali, non saprei come altro dirlo, “impegnante”, capace di alimentare un cambiamento in chi l’ascolta.

A Lazzaro, nell’agosto del 1984, intervenendo da Vicario Generale dopo il rapimento del piccolo Vincenzo Diano, Don Italo pronunciò una omelia dura ed accorata contro gli uomini “del disonore”, spiegando la decisione non facile di sospendere i tradizionali festeggiamenti del paese e stringersi come comunità attorno alla famiglia, isolando con decisione i mafiosi.

Concludeva rivolto ai giovani,che voleva partecipi convinti di questa scelta, dicendo “voi questo giorno lo ricorderete sempre”: e lo ricorderete non come l’anno della festa che a Lazzaro non si è fatta, ma come il giorno della assunzione di un impegno “solenne” che ciascuno di voi ha fatto qua ed oggi per “edificare una società più giusta, più libera, nella quale il primo posto sia attribuito alla vita, all’essere e non all’avere”.

Un invito forte a mettersi in cammino ieri come oggi.

  • I video di questa pagina sono tratti dal filmato “Don Italo Calabrò una vita per gli altri” a cura di Piero Cipriani, edito da @ConsiglioRegCalabria

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