Nessuno nasce pronto per fare il genitore. Le esperienze pregresse, se non adeguatamente elaborate, possono incidere negativamente nella relazione educativa
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Essere genitori non è semplice, ma ancor più difficile è arrivare ad esserlo privi di cicatrici. Ogni
adulto porta con sé la propria storia fatta di esperienze, gioie, ma anche dolori, ferite e traumi
purtroppo non sempre riconosciuti. Quando quelle ferite, però, non vengono elaborate – perché
ignorate, represse o semplicemente mai comprese – si riversano, spesso inconsapevolmente, sui
figli. Questo accende un meccanismo silenzioso di trasmissione del dolore che va da generazione in
generazione.

Il trauma non trattato: un’eredità silenziosa
Nell’immaginario collettivo, il trauma scaturisce da un evento drammatico o violento (abusi, guerre,
lutti improvvisi), ma è bene ricordare che esso può avere altrettante forme più sottili scaturite da
azioni e situazioni quotidiane (un ambiente familiare instabile, l’assenza di ascolto o
riconoscimento). Tutti elementi che possono lasciare un’impronta profonda nella vita e nella
psiche di chi li subisce.
Quando ciò che si vive non viene riconosciuto, o elaborato, tende a ripetersi, e non perché si abbia
l’intenzione di far del male, ma perché si agisce secondo degli schemi di comportamento
interiorizzati fin dall’infanzia, in maniera quasi automatica. In questo modo, ciò che i genitori
hanno subito, spesso finisce per riaffiorare – sotto altre forme – nella relazione con i figli.
Come afferma lo psicoterapeuta Richard Rohr: “Ciò che non viene trasformato, viene trasmesso”.
Ipotizziamo che un genitore abbia vissuto abbandoni emotivi: per paura che quello schema e quegli
stati d’animo da lui vissuti si possano ripetere, potrebbe sviluppare un ipercontrollo sui figli, nel
disperato tentativo di “non farsi lasciare mai”. O, ancora, un genitore cresciuto in un ambiente ostile
potrebbe reagire con freddezza o durezza nei confronti dei figli, perché ha interiorizzato il concetto
che “mostrarsi deboli” sia pericoloso. Questi comportamenti, se non riconosciuti, generano nei figli
confusione, ansia, senso di colpa ed insicurezza. Non comprendono da dove derivi il disagio, lo
assorbono passivamente come parte della realtà.

Responsabilità, non colpa
E’ importantissimo sottolineare che parlare di queste dinamiche non serve a colpevolizzare i
genitori, ma a responsabilizzarli.
La genitorialità è un cammino di crescita reciproca. Nessun individuo nasce pronto per fare il
genitore, ma ogni genitore ha l’opportunità di fermarsi, guardarsi dentro e riconoscere i propri
limiti. Arrivare alla consapevolezza che alcuni comportamenti non nascono dai figli, bensì da ferite
mai propriamente elaborate, potrebbe rappresentare il primo passo verso l’interruzione dello
schema.

“Sbagliare è umano, perseverare è diabolico”
Lo sbaglio non definisce l’essere di una persona – o di un genitore – ma continuare a sbagliare
deliberatamente costituisce un comportamento negativo e potenzialmente dannoso. Tuttavia, non
c’è errore che non possa essere riparato: chiedere scusa ad un figlio, spiegare i propri stati d’animo,
raccontare la propria storia con onestà ed umiltà può diventare un ponte autentico.
La figura del genitore non ha necessità di essere perfetta, ma di essere vera, presente e capace di
mettersi in discussione. E’ nella riparazione che si costruisce un legame sicuro, autentico, ed è
proprio lì che si può interrompere il ciclo del dolore.

Scegliere di interrompere il ciclo
Rispetto a qualche decennio fa, la salute mentale, i traumi ed il benessere emotivo sono temi di cui
si parla spesso per fare sensibilizzazione. Nonostante ciò, chiedere aiuto rimane un tabù per molti,
sebbene esistano servizi che offrono spazi di ascolto, di confronto e formazione a sostegno di
genitori e non, come, ad esempio, il servizio promosso dall’Agape “i genitori consapevoli”.
I traumi non trattati non devono diventare condanne, né per i genitori né per i figli. La catena si può
spezzare: non è un processo semplice né tantomeno lineare, ma è possibile. Ogni gesto di
consapevolezza, ogni scelta di cura, ogni parola detta con sincerità crea un’alternativa.
Prendersi cura di sé non è egoismo: è l’atto più rivoluzionario e amorevole che un genitore possa
compiere nei confronti dei propri figli.
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*L’autrice è una giovane volontaria in Servizio Civile presso il Centro Comunitario Agape