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TikTok è una sfida educativa

Il social network che va per la maggiore rischia di favorire una mutazione antropologica delle nuove generazioni. Ancora una volta è in gioco la capacità degli adulti di essere educatori e formatori consapevoli

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Ultimamente si fa un gran parlare del fenomeno TikTok e minori dal punto di vista dei problemi legati alla privacy: molto meno si parla dell’uso che si fa di TikTok e ancora meno dell’uso e della conoscenza di questo social network da parte dei genitori. E ciò malgrado i fruitori di questo social non sono soltanto i ragazzi della cosiddetta Generazione Z, ma persone di tutte le età, dai più grandi ai più giovani ai piccolissimi. Ed è soprattutto riguardo a questi ultimi che sorge il problema.

TikTok, infatti, ha un algoritmo potentissimo che – letteralmente – ti sbatte in faccia i video che sa bene che vuoi guardare, che hai già guardato e che ti piacerebbe rivedere e che magari potrebbero essere collegati a qualcosa che hai ricercato su un motore di ricerca o qualcosa che hai acquistato. Ogni giorno ci sono i cosiddetti “trend”, dei contenuti che entrano in tendenza e che molti profili replicano facendoli diventare “virali”.

Genitori e figli

Tornando al discorso genitori-figli, capita sempre più spesso di vedere genitori che fanno video mentre ballano con i figli o ancora peggio genitori che utilizzano i figli minori per vendere un determinato prodotto. Qui arriviamo alla parte che più ci interessa: la poca consapevolezza di ciò che si sta facendo, l’eccessiva semplificazione, l’impossibilità di scelta e l’inconsapevolezza da parte di un/a bambino/bambina che in quel momento non sa, non comprende di essere ripreso/a perché lo scopo è la vendita di un prodotto, per non dire della forzatura verso gli stessi per farli atteggiare a “baby influencer”.

Sull’argomento sono stati numerosi gli articoli scritti ed è nato un dibattito importante sulla tutela della privacy e dell’immagine dei bambini e sullo sfruttamento dei minori da parte di genitori alla ricerca spasmodica di fama e di business. Qui, ovviamente, parliamo perlopiù della fascia di età denominata “generazione alpha” dunque dei bambini e delle bambine nati dopo il 2012 e del rischio di una loro totale esposizione digitale, vista l’impossibilità per gli stessi di dare il proprio consenso all’utilizzo della propria immagine. Il problema è che gli adulti, memori del vecchio detto “scripta manent, verba volant”, molto spesso non sanno (o forse neppure gli interessa) che sul web nulla si cancella, tutto “manent”, video di TikTok inclusi, ed i loro figli questo lo scopriranno solo quando cresceranno!

La Generazione Z

Non meno preoccupante è l’impatto di TikTok sulla Generazione Z, perché i così denominati (in modo errato) dagli adulti “nativi digitali” sanno realizzare bei contenuti, conoscono tutti i segreti dei social, ma allo stesso tempo non hanno alcuna consapevolezza delle conseguenze della continua sovraesposizione e delle problematiche legate al poco sviluppo di un pensiero critico. Secondo la  blogger Serena Mazzini, che sta facendo un grandissimo lavoro di informazione su queste tematiche, i problemi su TikTok sono sicuramente l’eccessiva sessualizzazione di persone minorenni (vi sono tantissimi video di ragazze che pubblicano foto compromettenti che rimandano, ad esempio, a siti di scommesse), e la semplificazione che porta i cosiddetti creator a raccontarsi con dei balletti di pochissimi secondi senza utilizzare alcuna parola o emozione.

La poca attenzione che i nostri ragazzi e ragazze hanno deriva proprio da questi contenuti brevissimi, che fanno assimilare loro il nulla cosmico compromettendo anche lo sviluppo di una personalità propria. È molto più facile essere come l’influencer di turno che mi fa vedere una vita agiata a colpi di #adv (messaggi pubblicitari).

Il “non dolore”

Ma la cosa che mi rattrista maggiormente è la nuova tendenza del “non dolore”. Ultimamente è pieno di video dove adulti e adolescenti, a volte anche insieme nello stesso video, si riprendono per farsi vedere “forti” dopo una morte improvvisa, video dei funerali di un proprio caro, video dove si riprendono mentre si truccano e dove scrivono “prepariamoci insieme mentre vado al funerale di mio nonno”, o ancora, video con coreografie e sottofondo musicale di famiglie per ricordare un bambino o bambina morta.

Un altro recente fenomeno alquanto preoccupante riguarda ragazze molto giovani che aprono profili dedicati al proprio percorso nella battaglia contro i disturbi del comportamento alimentare, trasformando questo percorso in un reality show dove tutti ti seguono, tutti commentano, tutti giudicano, altri ti copiano e molti pensano quanto sia “cool”. Il corpo e la voce diventano prodotti, gli ideali degli #adv.

Parlarne e rendersi consapevoli


Che fare dunque? Sicuramente parlarne. Ci sono diversi giornalisti  che lo stanno facendo, creator, blogger, ma anche diverse organizzazioni del terzo settore – come ad esempio Fondazione Mondo Digitale che da anni lavora insieme alle istituzioni e alle scuole sulla formazione e su attività e programmi specifici sull’uso consapevole dei social network e delle tecnologie digitali nella loro totalità (tra i progetti storici dell’organizzazione, “Vivi Internet al Meglio”, il progetto che Google dedica a docenti, studenti e genitori per sperimentare come vivere il web in maniera responsabile, che di recente si è arricchito di nuovi moduli e strumenti dedicati ai ragazzi e ragazze con disabilità);  Save the Children insieme al CREMIT e alla Cooperativa E.D.I attraverso il progetto “Connessioni Digitali” con l’obiettivo di colmare la povertà educativa digitale, lavorando con le ragazze e i ragazzi tra i 12 e i 14 anni per diventare cittadini digitali attivi, padroni degli strumenti per esprimere le idee in modo creativo, consapevole e sicuro.

È un lavoro molto difficile, poiché ancora si pensa che l’unico problema sia il tempo che i nostri ragazzi e ragazze passano con gli smartphone. I social non vanno demonizzati, vanno conosciuti in primis dagli adulti che solo così possono accompagnare i nostri bambini e bambine, ragazzi e ragazze ad un uso consapevole degli stessi.

Per guidare la macchina ci vuole sì la patente, ma soprattutto un’età specifica, poiché si presuppone che in quella età si sia acquisita la giusta consapevolezza; e poi la patente si consegue dopo un periodo fatto con il foglio rosa, l’assistenza di un adulto, la scuola guida. La stessa identica cosa dovrebbe valere per i social, dove non serve un patentino ma percorsi specifici attraverso i quali gli adulti conoscano questo universo in continua evoluzione e, pur tra tante difficoltà, rimangano al passo nel mondo dell’onlife. Sicuramente la ricetta perfetta non esiste, ma è necessario uno sforzo da parte di tutti.

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